Va bene,
forse lo sguardo della mia amata
non mi apparteneva
esclusivamente
e per questo l’avevo
disconosciuta
e offesa,
e forse anche minacciata;
forse lei mi aveva allora
disconosciuto,
e si era offesa,
e forse si era anche spaventata...
«È un gioco
inevitabile
quello fra uomo
e donna,
si ha bisogno di
soffrire per volersi bene,
si ha bisogno di
volersi bene per godere,
si ha bisogno di
godere per vivere!»
non ci volevo andare dallo
psicologo,
io!
«Sai»
il collega mi
diceva mentre alzavo una cassa
di pomodori
alla MERCAFIR,
«dopo quello che
mi hai detto
credo proprio di
avere ciò che fa per te,
tieni!».
Il biglietto da
visita
di uno psicologo
fra i più noti,
con sovrimpresso
il suo nome
in Edwardian
Script ITC
che sembrava
scintillasse
sul bianco della
carta
mi venne esibito
davanti agli occhi...
«non è poi tanto
caro
e io mi ci sono
trovato bene,
guarda
che è in gamba,
chiamalo!»
terminò,
mettendomelo in
tasca.
Contenni il disprezzo
con le lacrime agli occhi.
Ecco chi fa girare l’economia
ed ecco che la percentuale di
rispetto
dello psicologo nei confronti
del mio collega
aumentava vistosamente
ed era sparso ai quattro
venti,
poiché io,
tornando a casa,
non so perché
(non mi era mai accaduto
prima)
crollai nella più “tetra” disperazione
e da essa
(suscitata da chissà cosa)
fui indotto a chiamare quella
sorta di individuo
che era un rispettabile,
egregio,
benestante
(ma mai abbastanza)
“psicologo”.
Oh no,
nessun pregiudizio:
solo una sensazione
e l’ineluttabilità di un
destino
che a tratti
sapevo tirasse i miei fili
senza che potessi farci niente.
Metti una veste a un monaco
e sarà monaco,
Metti un uomo sano in
manicomio
e sarà il più pazzo fra i
pazzi del manicomio.
Ma forse c’era un errore!
No,
forse
non c’erano più “forse”.
Ma non c’erano né monaci
né pazzi di mezzo,
ma uno psicologo in gamba
e uno scaricatore di frutta e
verdura fallito;
il manicomio invece c’era,
eccome,
ed è quello da cui fuggo ora
iniettandomi un veleno nocivo.
È da poco che mi sono punto,
non so quanto ci vorrà,
mi ha venduto questa sostanza
uno spacciatore
a cui ho dato ogni risparmio,
un tizio trascurato
e sporco,
con i palmi delle mani sempre
giallicci
e l’alito pestilenziale
che sempre ci teneva a farmi
sentire
parlandomi come per baciarmi,
così,
a un palmo di mano.
La fortuna,
la fortuna mi ha sbendato gli
occhi,
così ho potuto ricordare
i bagni della stazione,
e non è nemmeno inverno.
Con la mia amata
era iniziato in modo
fantastico,
finiva ora
in modo bieco,
squallido,
non l’avrei mai immaginato,
almeno finivo anche io
e lei restava viva,
non avrei potuto sopportare la
sua morte,
anche se a volte
l’ho odiata
per quei forse,
e l’ho forse dunque odiata,
ma erano forse solo miei quei forse?
Forse sì,
forse no!
Non ci siamo però più sentiti
da quando litigammo l’ultima
volta,
fu forse lei a chiudere,
ma fui forse io a decidere,
fui forse dunque io a chiudere,
ma forse fu lei a farmene risolvere,
eppure ha fatto molto male
sentire che il mondo le dava
ragione,
forse
perché fu il mondo a indurla...
ma no,
fu lei che volle crederci!.
Ecco,
mi si appanna la vista...
Sono calmo,
molto.
Forse il mio psicologo
della mia assoluta calma
direbbe
che sia molto anormale,
e allora farebbe di tutto per
patentarsi psichiatra
entro i cinque minuti
che mi rimangono
e sedarmi con qualche potente
psicofarmaco
al fine di impedirmi,
buon uomo,
di venire a mancare da questo
“mondo”
buono,
generoso,
altruista,
e ingiustamente da un uomo
solo condannato all’infinito
facendo strage
e compiendo grave peccato
per il quale Dio
certamente non mi avrebbe
perdonato.
Si elevò naturalmente il medio
e le piastrelle del cesso
rimasero impassibili,
ovviamente;
l’occhio mi cadde su una
scritta
in rosso
a un lato della parete:
“Giusy
ti amo,
mi fai
impazzire,
per
sempre!”
non vidi le solite parole,
non vidi l’egoismo del mondo,
e non mandai a fanculo
nessuno...
“Beati loro
e buona fortuna!”
stranamente pensai;
quindi mi sedei sul gabinetto
che avevo accortamente pulito non
appena entrato.
L’unico rumore era il classico
sgocciolio d’acqua circostante.
«Vorrei dirglielo!»
pensai,
groppo in gola,
prima di decidere che stavo
morendo,
finalmente,
e indifferente rassegnarmi a
questa morte.
«Vorrei dirle che sto morendo,
vorrei dirglielo!»
una lacrima solitaria mi solcò
lo zigomo
e venne assorbita dai miei
jeans.
La marcia funebre di Chopin
iniziò a suonare squillante,
insinuante,
quasi molesta;
l’ansia rallentò la mano
che portavo alla tasca del
giubbotto,
risposi alla telefonata
anonima...
«Ciao»
«Ciao»
«Cosa stai facendo?»
«Sono nel bagno della stazione»
«Ah,
scusa,
non volevo disturbarti»
«Non mi disturbi!»
«Ah,
ok,
se devi andare,
però,
dimmelo...
ti chiamo più tardi?»
«No,
ti prego,
fra poco viene a trovarmi un
amico,
abbiamo appuntamento qui,
dimmi quello che mi devi dire
appena arriva ci salutiamo»
«Volevo dirti che ti amo,
volevo dirti che un giorno
potremo stare insieme,
ti amo!»
«Che vuoi dire?»
«Voglio dire»
scoppiò in pianto
«voglio dire che ho deciso...»
«Cosa?
Cosa? »
«Ho deciso di farla finita!»
«Stai calma»
le dissi,
«mi sono iniettato un veleno
letale
da cinque minuti,
ora muoio io e tu mi assisti,
per favore»
strani rumori si produssero
dopo un intervallo silenzioso,
voci strane
simili a quelle di esseri
paranormali
mi indussero a premere il
tasto del cellulare
con il telefono rosso,
per poco non svenni,
per poco non piansi,
poi Chopin risuonò nuovamente:
era di nuovo lei.
«Pronto?»
«Sì!»
«Ma è caduta la linea?»
«Sì!»
«Ma che erano quei rumori?»
«Non so!»
«Sembravano voci di alieni»
«Sì,
sembravano demoni arrabbiati.
Dimmi che posso fare!»
«Niente.
Ti amo»
piangeva,
anch’io piangevo ma non lo
sapevo nemmeno.
«Chiamo un’ambulanza»
non l’avrei tollerata
l’ambulanza in quel momento,
e forse mai.
«Non sono alla stazione di
Rimini»
le dissi.
«E dove se...»
«Shhh,
non dire più niente»
le si mozzò il fiato.
«Perché volevi farla finita?»
«E tu perché?»
«Ah,
è una storia lunga.
Tu,
piuttosto?»
«Mi mancavi
ed ero infelice per la mia
vita»
ebbi un mancamento,
vidi ombre scure con la coda
dell’occhio
annaspare verso me,
mi agitai
ma presto le dimenticai,
concentrandomi su lei.
«Ora blocco»
disse
«e chiamo il centodiciotto»
risi sprezzante per
scoraggiarla.
«Perché ridi?»
mi chiese.
«Niente,
ora devo andare»
«No!»
disse in lacrime,
«non andare,
ti prego,
non mi lasciare sola!»
bloccai dicendo che l’amavo...
poi piansi anch’io,
fregandomene si qualcuno mi
avrebbe sentito,
udii l’eco dei miei singhiozzi
terminare divenendo atono
e caddi sul pavimento lurido
di urina,
sbattendo la testa
sul bordo del gabinetto,
persi i sensi.
Quando mi svegliai era notte
fonda
e non ero molto felice di
essere ancora vivo,
pervenni subito alla
conclusione
che quello spacciatore
mi aveva venduto una droga
e non un veleno letale,
mi ripromisi di fargliela
pagare,
ma non l’ho più incontrato,
subito dopo pensai alla mia
amata
che si era uccisa
pensando che io fossi morto
nei bagni della stazione.
Vago per la città in cerca di
risposte
che non mi vengono fornite da
nessuno
perché tutti pensano che io
voglia soldi.
Ma la mia ricerca termina qui,
forse,
perché forse non ho la forza per farlo,
perché forse la ebbi quando non potevo,
perché Dio
è uno stravagante,
un terribile stravagante,
ed io,
perso tutto,
incontro il mio collega che
adesso è vicedirettore
e mi evita sprezzante
e il mio psicologo,
mi è giunta voce,
ci ha litigato
e lo ha denunciato per
diffamazione,
chissà perché,
mi chiedo;
non mi avvicino al cimitero
in cui fu sepolta,
perché non avrebbe senso,
penso.
«Volevo dirti
che ti amo,
volevo dirti che
un giorno potremo stare insieme,
ti amo!»
diceva la verità la mia amata,
e io non me ne ero accorto...
Iniziai a credere che ci
saremmo davvero rivisti
in un eliso
fatto per noi,
solo per noi,
e trovai un senso a questa
vita:
viverla per morire
e non morire per poterla
vivere,
sì,
morire per incontrarla,
incontrare lei al più presto;
e ora
piango pensando a lei
e chiudo gli occhi per
l’ultima volta.
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