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lunedì 31 maggio 2021

Te sigo sonando | Marco Lepori

 



Siccome mi sta uscendo la pancia, ogni tanto metto i calzoncini e me ne vado a correre. Che poi avrei quasi quarant’anni e ci può anche stare di allargare il proprio bacino a dismisura, diciamo che si tratta di un blando e disorganico tentativo di arginare l’irreparabile. Prima di uscire di casa non seguo grossi preparativi, niente magliette termiche, niente cardiofrequenzimetri (non sono sicuro che questa parola esista) o contapassi. L’unica cosa che faccio è ungermi le cosce di crema idratante per evitare sfregamenti fastidiosi che poi mi impedirebbero di camminare per le settimane seguenti, Cris Solinas sa bene di cosa parlo! La strada che faccio l’ho ribattezzata Il cammino incantato delle sette fonti: la prima è una fontana vera e propria, di quelle in cui uno può andare a riempire i bidoni quando manca l’acqua. Attenzione però, non so se sia buona da bere, un amico mio che la usa per bollire la pasta è pieno di peli sul palmo della mano; la seconda fonte è in realtà un abbeveratoio per le vacche; le tre successive sono semplici scoli per le fogne a monte; la sesta è un altro abbeveratoio, questo però con liquido marroncino; la settima in realtà non esiste, ma siccome il nome cammino incantato delle sei fonti mi risultava indigesto è molto poco poetico, ho deciso di inventarmela.



KM numero 1

Di solito al primo chilometro uno ha le gambe un pochino imballate e fa una certa fatica. Questa regola vale anche per il sottoscritto, solo che me ne frego e parto a razzo lo stesso. Poi, dopo circa quattrocento metri, torno indietro perché ho dimenticato il cellulare in macchina. Che poi uno del telefonino mentre corre non se ne fa una minchia, solo che ho sempre paura che me ne possa scendere un infarto o un qualche malore simile, e in tal caso vorrei avere la possibilità di fare un ultima telefonata a mia moglie per comunicarle le ultime volontà, che per sicurezza scrivo anche qua: interratemi assieme a miei dischi, che non sono tantissimi e dovrebbero starci tutti nella cassa di mogano (nel caso non ci fosse spazio a sufficienza scartate quello di Lucio Dalla che l’ho preso solo per moda ma non lo ascolto mai), il resto (quale resto?) sperperatelo pure come meglio credete. Tra parentesi, accetto volentieri consigli su dove ficcare il cellulare (niente volgarità gratuite prego) mentre corro. Nella tasca del K-way ballonzola troppo, quella specie di custodia che mi lego al braccio se la stringo troppo forte mi blocca la circolazione, se invece la tengo allentata scivola dappertutto. Ad ogni modo la strada, o meglio Il cammino incantato delle sette fonti, ha una particolarità molto apprezzabile, è chiusa al traffico da una ventina di anni. Nessun guidatore può percorrerla, e dunque implicitamente nessun mezzo a motore può stirati sotto le ruote mentre corri, nessuno tranne i possessori di una Panda vecchia! Loro possono, immagino per qualche legge scritta appositamente, e dunque ogni volta che ci vado ne incrocio quattro o cinque!


KM numero 2

Sto benissimo, le gambe sono sciolte e girano a meraviglia, sputo come un lama ma non sento ancora il bisogno di abbeverarmi in una delle sette, vabbè sei, fonti. Davanti a me, o meglio sotto di me, ho un paesaggio da favola. Dolci colline vanno a tuffarsi in un mare cristallino, verdi pascoli si fondono con gloriosi resti di antiche civiltà. Che sia questa la famigerata fusione tra uomo e natura di cui blaterano tutti? Così almeno immagino, perché in realtà non ci vedo un cazzo! Sono più cieco di Jhon Lennon, da vicino tanto quanto ma da lontano proprio nulla, gli occhiali li lascio in macchina perché poi non so come lavarli, inoltre tutto il sudore che mi cola sugli occhi pasticcia i colori che ho sullo sfondo rendendolo simile a alla tela di un pittore macchiaiolo bulgaro qualsiasi. Dovrei almeno evitare lo stereotipo delle pecore presenti ovunque in Sardegna, e invece non posso, perché la strada è invasa da un gregge. Ora, non è che io abbia mai avuto particolare paura dei cani, ma questi due che controllano le pecorelle sono piuttosto massicci; se mi si tirano contro dove minchia scappo? Per fortuna con loro non succede nulla di sgradevole, devono avermi catalogato come un innocuo minchione. Mentre gli sfilo sotto il naso, noto che hanno lo stesso sguardo di superiorità degli operai dell’Anas: noi qua a farci il culo lavorando e questo si diverte a correre! Il problema grosso sono le pecore, non le facevo così veloci. Come mi avvicino scappano da tutte le parti al triplo della mia andatura. Hanno avuto paura, si sono cagate addosso, letteralmente però! E adesso l’asfalto è un tappeto morbidissimo di guano fresco fresco, praticamente impossibile da schivare. Ho un tacco di letame sotto la suola, per fortuna sono entrato nella fame raccatta ossigeno disperatamente e dunque respiro affannosamente con la bocca e non sento la puzza, un trucco che ho imparato cambiando i pannolini a mio figlio (si lo so, che qualcuno, anzi qualcuna che sta leggendo in questo momento, ha fatto una smorfia di sarcasmo convinta che io non cambi mai i pannolini…).


KM numero 3

Il peggiore di tutti. So bene cosa mi aspetta: una serie di curve in pendenza, poi rettilinei che non finiscono più, dopo curve rettilinee e rettilinei curvi tipo Mortirolo, poi altro che non di solito non registro perché a quel punto non ci capisco più nulla. L’ultimo chilometro è quello delle visioni. Una volta mi è apparso il Maestro di Castelsardo che seduto sul guardrail dipingeva il San Michele Arcangelo, con Vittorio Sgarbi al suo fianco che gli consigliava di usare il rosso per colorare i parastinchi! Un altra volta ho visto Marlon Brando in braghe di tela, con due hawaiane che gli ballavano attorno, con in mano una lunga lista di prodotti da boicottare perché made in Israele. Oggi sono stato affiancato nientepopodimenoché da Dorando Pietri! Era più sfatto di me, eccessivamente traballante e polveroso a tipo Pig Pen dei Peanuts. All’inizio abbiamo fatto a gara a chi andava più lentamente, poi, siccome nessuno dei due aveva un alito di fiato da sprecare, ho pensato che avremmo potuto conversare telepaticamente. “Proviamo come fanno in Shining”, gli ho trasmesso col pensiero. “Che cazzo sarebbe Shining?”, mi ha risposto lui, che a parte la sgarbatezza della risposta, mi ha fatto contento perché il sistema sembrava funzionare. “Sono più di centotrent’anni che non sopporto il mio nome, che cazzo di nome mi hanno dato?”, mi ha chiesto, ma io non ho saputo cosa rispondere perché seppure sotto sotto credo avesse ragione, è sempre brutto dire ad un anziano che ha un nome oggettivamente brutto. “Dorando Piè”, ho glissato, “ma uno, quando non c’è la fa più, che sente le gambe esplodere, cosa deve fare?”. E lui, sempre col pensiero, “Ti attacchi, nel senso che ti appendi a qualcuno, ti fai trascinare, sorreggere, nel caso ti fai portare a cavalluccio sino al traguardo...”. Subito mi è sembrato un consiglio molto saggio, ero a circa cinquecento metri dal traguardo, che sarebbe la fine del tratto chiuso al traffico, e gli ho chiesto se riusciva a darmi una mano lui, visto che in quel momento non c’era nessuno nel raggio di mille miglia. “Io ho centrotrentacinque anni suonati, ho fatto la maratona e sono più stanco di te!”, così mi è toccato caricarmelo sulle spalle a Dorando Pietri per quei cinquecento sporchissimi metri finali. A quel punto è spuntato fuori pure mio nonno paterno, che non vedevo da quando avevo sei anni! Potrebbe sembrare una cosa completamente insensata e invece non è così, perché era originario proprio di queste parti, e, almeno credo, pastorigava (non è un termine facilmente traducibile, anzi sì, portava a pascolare) le pecore nella stessa zona in cui io vado a correre. Mio nonno non è stanco, non ha il fiatone, la salivazione sotto i tacchi, la lingua sciolta sopra il palato. Mio nonno è più allenato di me, più muscoloso, più prestante, più atletico, più abbronzato e ha pure più capelli in testa! E visto che anche lui non vedeva il nipote da un casino di anni, ha un casino di consigli da elargirmi. Solo che, vuoi per la stanchezza, vuoi per il fatto che senza occhiali divento pure mezzo sordo, vuoi perché ho il fiatone di Dornado Pietri sparato a tutto volume dritto nelle orecchie: alla fine non sento praticamente nulla. Non so più se sono vivo o sono morto anche io! Appare la scritta fatta a bomboletta su un muro di cemento armato TE SIGO SONANDO. Non ho la più pallida idea di cosa voglia dire, ma per il sottoscritto significa che mancano solo pochi metri al traguardo che di solito mi auto-impongo. Lo deve sapere pure Dorando Pietri, che ormai è fresco come una rosa, salta sull’asfalto con un certa eleganza e mi supera in scioltezza tagliando il traguardo a braccia alzate, davanti a un nugolo di fotografi di inizio novecento e mi pare, ma potrebbe anche essere un semplice visione, anche i fratelli Lumiere che imprimono sulla pellicola il suo trionfo. A quel punto mio nonno si incazza, si para davanti a Dorando Pietri, lo squalifica dalla gara togliendogli la medaglia d’oro dal collo e mettendosela in tasca! Li lascio mentre infuria il battibecco, ho paura di beccarmi la pioggia e ho ancora i tre chilometri del ritorno da fare.

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